Dice il mio vicino: “Non azzardarti a uscire. Del resto che vuoi che siano dieci giorni in una vita. Neppure te ne accorgi, un attimo e sono già finiti”. Ma non è vero perché è la vecchia storia ancora in voga della teoria della relatività, quella che ci spiega che dieci giorni a fare l’amore con la propria bella passano al volo, giusto in una decina di minuti, con la sottile incazzatura che viene quando ci si accorge che sono già finiti e che il mattino dopo bisogna tornare a lavorare. Starsene da soli, in casa, a fare su e giù tra le piastrelle, divano, sala, balcone, balcone, sala, divano, paiono dieci anni, con la speranza che i domiciliari siano sul punto di concludersi e che finalmente l’indomani si possa riprendere il proprio posto in ufficio.
Brutta bestia il Covid, soprattutto per i parenti di chi se ne è andato, ma qualcosa anche per la politica dell’isolamento che stiamo vivendo da due anni, prima il lockdown, che ci faceva diventare tutti buonissimi, ma pure mezzi matti barricati davanti al computer di casa, ora per via della quarantena di chi, come me, l’ha preso in giro a zonzo, su una spiaggia o dentro al mare, prima di avere deciso se era il caso di vaccinare l’intera famiglia, minori compresi, nel mio caso i miei due figli, Vini e Ze.
Sono all’ottavo giorno d’isolamento, fisicamente sto bene bene ormai da una settimana, i dolori influenzali sono passati, mi sto bevendo una birretta e mercoledì faccio il tampone. Se sono negativo, chiedo a Percassi l’affitto dello stadio dell’Atalanta. Faccio una festa, ovviamente con i ventimila e passa invitati mascherinati e distanziati, ma che ci impegni tutti per almeno ventiquattro ore, che mai ho sentito così forte la mancanza delle persone, le voci, quelle dal vivo, che al telefono suonano diverse, prive di grazia, gli occhi, che a me piacciono da matti, le braccia e le gambe, insomma i corpi, anche in lontananza, ma che siano in carne e ossa, non in primo piano su una delle serie prodotte da Netflix magari sul Wrestling femminile.
Più del sottile odio degli ultrà del vaccino, “te lo sei meritato e ora devi pagare”, a me fa incazzare l’idea governativa che io sia un folle irresponsabile, la stessa vicenda del famoso aprile, ossia che io venga ogni volta trattato come un cazzo di untore da spaventare a morte perché altrimenti se ne va in giro ad attaccare la malattia agli altri. Potevo in questi giorni farmi lunghe camminate sui monti di Bergamo, ascoltare il suono degli alberi, farmi coccolare dalla terra sotto le mie scarpe. Mi conosco, la natura mi avrebbe fatto bene, mi avrebbe guarito l’anima alla velocità della luce. E non avrei messo in pericolo altra gente, sarei stato a chilometri di distanza da chiunque, qualunque anziano, qualunque malato, qualunque uomo in età da marito, qualunque donna che abbia avuto il suo primo ciclo di mestruazioni, come sempre in questi ultimi due anni. Ma non sarebbe bastato perché se avessi preso la via dei campi, sarei addirittura potuto finire nel penale.
Ho preso il Coronavirus da un bambino, per farlo giocare sulle mie spalle. Lo stesso mio figlio Vinicio. E non gliene facciamo una colpa. E’ successo, abbiamo avuto un’influenza e poi ci è passata. Eppure entrambi ricorderemo per sempre questi giorni, isolati, ma lontani, annoiati, reclusi, senza sapere mai che cazzo fare, manco scrivere o suonare, che senza niente intorno quel che resta del giorno è solo masturbarsi a oltranza sul divano.
Bisogna fare il vaccino anche per questo, per evitare l’isolamento in un piccolo appartamento in centro o nella camera di un ospedale, soli e tristi, guardati male, da appestati privi di senno. Detto questo, ringrazio chi mi vuole bene, i tantissimi che mi hanno chiesto “come stai e come sta Vini? Facci sapere…”. Pro vax o no vax, sono le persone che oggi sento nel cuore.
Matteo Bonfanti
Nella foto: io oggi, sul divano, a vedermi Netflix, sognando un altro Egitto