Cene

– Sono 1400 i morti delle case di riposo orobiche. Il 20% dei 6500 posti disponibili in Bergamasca. Al 31 marzo. In genere sono il 10-15% su un anno intero. Un dato agghiacciante, che toglie il fiato. Tanti sono gli anziani, i nonni, i padri e le madri che se ne sono andati in un mese. Un’intera generazione è stata spazzata via, un’intera generazione non ha retto l’urto di un’epidemia che ha spezzato vite per lasciare solo ricordi. E ormai da una settimana a questa parte monta la polemica sulla gestione delle Rsa, sulla presa in carico dei pazienti leggeri Covid nelle strutture bergamasche, sulla presunta o reale commistione tra anziani degenti e malati, sulla gestione dell’emergenza, ma anche sulla mancanza di tamponi fatti nei ricoveri e sull’assenza dei dispositivi di sicurezza. I decessi ci sono stati, eccome, e questo è un dato di fatto. Tanto innegabile, quanto indicibile, considerata l’onda di dolore che ha invaso la nostra provincia, il dramma di dipartite premature che hanno coinvolto donne e uomini che avrebbero potuto tranquillamente godere ancora di molti anni di vita. Tanti i dubbi, tante le domande, tanti i perché. Motivi che hanno portato alla decisione di istituire una commissione speciale che avrà il compito di monitorare l’operato di tutte le strutture della regione. «Si tratta di una commissione composta da primari e medici di prim’ordine, il cui compito, credo, sia quello di eseguire una valutazione di carattere tecnico-scientifica – racconta Cesare Maffeis, 52enne medico della Val Seriana, omeopata, professore universitario, presidente provinciale ACRB, l’associazione delle case di riposo bergamasche, direttore sanitario delle strutture di Cene e Gromo, presidente di Casa Serena a Brembate Sopra, della Rsa di Clusone e vice di quella di Martinengo. “Non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione in merito, ad oggi, in merito ad una possibile verifica. Ma se così fosse, per quanto ci riguarda, non possiamo che essere tranquilli: abbiamo rispettato in toto le direttive, anche laddove si sono rivelate tardive o dove non rispettavano propriamente le nostre volontà. Abbiamo fatto sempre del nostro meglio, obbedendo alle regole imposte anche se, in certe situazioni, avremmo preferito agire diversamente. Non ci sentiamo in colpa su nulla, al contrario ce l’abbiamo messa tutta per cercare di sostenere e affrontare la situazione al meglio. Credo che la mission di questa commissione sia legata alla possibilità di verificare se le linee guida siano state rispettate, se si è agito in virtù dei protocolli, non certo un’indagine speculativa o indagativa. Laddove invece fosse così, ma non credo, almeno per quanto riguarda le nostre realtà bergamasche, non resteremo certo in silenzio. Se chiamati in causa, risponderemo. Però, al momento, non credo ci sia nulla per cui valga la pena allarmarsi, preoccuparsi o fare polemica. Anzi, se l’intento della Regione è quello che ritengo, lo trovo un valore aggiunto per trovare delle strategie d’intervento comuni più proficue per lavorare ancora meglio”.
L’analisi di Maffeis sull’operato delle strutture che gli competono è molto chiara: “Abbiamo agito in totale partecipazione e trasparenza. Quello che ci interessa far sapere è che, da parte nostra, c’è sempre stata la massima collaborazione e la massima chiarezza. Abbiamo lavorato nel rispetto delle regole e per il bene dei nostri assistiti”. E Maffeis ricostruisce la vicenda dalla fine di febbraio: “Ancor prima della circolare dell’8 marzo emanata dalla Regione, in una delle tante riunioni a cui partecipiamo con Ats e Regione, ci avevano verbalmente invitati a farci carico di pazienti Covid leggeri, a bassa intensità, in via di remissione. La condizione era di poterli ospitare nelle nostre strutture purché queste avessero i requisiti espressi poi nella circolare, ovvero fossero gestiti in strutture separate, con personale dedicato, lontano insomma dalla normale gestione dei nostri pazienti. Hanno risposto positivamente in 5-6 strutture, ci siamo immediatamente fatti carico del problema perché avevamo capito che l’emergenza sanitaria era davvero di portata spaventosa, perché il nostro aiuto sarebbe servito ad alleggerire il carico degli ospedali bergamaschi che, diversamente, sarebbero andati al collasso”. Da qui, la decisione di aderire: “Abbiamo accettato, senza nemmeno preoccuparci di chiarire le questioni economiche. Abbiamo vissuto questa richiesta come un disperato bisogno di aiuto e, con lo stesso spirito, abbiamo risposto presente. Una mano tesa a chi ne aveva bisogno, un intervento di mutuo soccorso, un atto di generosità assolutamente dovuto. Questo abbiamo pensato e così abbiamo fatto. Abbiamo scelto consapevolmente di diventare protagonisti perché inseriti in una dimensione di protezione, cercando di creare un fronte comune. Era un dovere morale ed etico, prima ancora che sanitario, quello di legarci alla situazione, non potevamo rimanere spettatori sordi e assenti di fronte al problema”.
Quali le strutture che si sono messe a servizio? “Carisma di Bergamo, Brembate, Ponte San Pietro, Cologno, Martinengo hanno aderito immediatamente alla proposta e hanno continuato ad accettare pazienti anche dopo l’8 marzo. La richiesta era di 1200 posti, ne abbiamo offerti 120. In partenza, alla prima riunione conoscitiva, si erano fatti avanti in molti di più, poi, con il degenerare della situazione, molte realtà si sono tirate indietro”. Ed è stata proprio questa accettazione che ha insinuato il dubbio, forte, che la presenza di pazienti Covid avesse influito sull’ecatombe degli anziani: “Non è assolutamente così. In questo momenti circolano un sacco di falsità. Non permetterò a nessuno di speculare su questo, anche perché quello che mi sento di dire è che non c’è mai stata commistione tra i reparti perché erano strutture interamente dedicate, con personale apposito. Piuttosto, i tanti, tantissimi decessi che sono avvenuti nelle nostre case di riposo sono stati legati ad altri fattori, tre secondo me fondamentali: la tardata chiusura dei centri diurni, il posticipare la chiusura delle strutture a qualunque forma di ingresso e la mancanza di dispositivi di sicurezza per i nostri operatori e per i visitatori. Lo dico e lo ripeto, non c’è mai stata commistione nelle nostre strutture. I pazienti Covid accolti sono stati immediatamente isolati, come da protocollo e i nostri operatori, sanitari e non, si sono immediatamente organizzati per non accedere né lavorare nelle stesse aree”.
L’attenzione è stata massima fin da subito, dallo scoppiare del focolaio di Codogno, ma le richieste delle Rsa sono cadute nel vuoto: “Appena abbiamo letto del primo focolaio di Codogno, tra il 23 e il 24 febbraio, abbiamo immediatamente scritto ad Ats e Regione per chiedere il permesso di chiudere i centri diurni e per limitare le visite alle case di riposo. Ci è stato detto di no. Richiesta respinta. Poi, quando però era troppo tardi, ce lo hanno imposto. Ma erano passati 15 giorni”. E per due settimane, i centri diurni e le case di riposo sono state oggetto, come normalmente avviene, di continui andare e venire di operatori sanitari, volontari, parenti: “Il virus è stato veicolato così, con l’accesso continuo di persone che andavano e venivano dalle strutture, che arrivavano a portare gli anziani e che poi tornavano a casa loro. Ovviamente, tutti senza dispositivi di sicurezza. E quando la situazione ha cominciato a farsi chiara, quando il virus ha cominciato a infettare i nostri nonni, quando i nostri ospiti hanno cominciato a manifestare i primi sintomi, come ad esempio la febbre, li abbiamo immediatamente isolati e ci siamo preoccupati di curarli”. Certo, la certezza che fosse Covid non c’era, anche perché le case di riposo non hanno mai avuto a disposizione i tamponi: “Solo da questa settimana i nostri operatori sanitari cominceranno ad essere sottoposti a tamponi. Verranno sottoposti a controllo tutti, sia coloro che entrano che quelli che escono dalle strutture, i nuovi ingressi, i degenti e tutti coloro che potrebbero avere dei sintomi riconducibili. Ma, per gli anziani che ci hanno lasciato, è troppo tardi”.
Per Maffeis è dura accettare questa situazione, durissima. Del resto lui è un medico della Val Seriana, ha anche fatto il sindaco a Cene, il suo paese, per un quinquennio: “Diciamo che sto vivendo questa situazione davvero a tutto tondo e non solo perché sono in prima linea con gli anziani, ma perché in primis sono un cittadino della Val Seriana e le garantisco che solo chi abita nelle mie zone si è davvero reso conto di cosa è successo. Solo chi l’ha provato sulla pelle, sa di cosa stiamo parlando. Io mi sono ritrovato a perdere amici, parenti e conoscenti, come tutti. E, in piena emergenza, ho cominciato a visitare i pazienti a casa. Non sono l’unico. Ci sono tanti medici come me che hanno sentito e accolto la chiamata alle armi. Hanno cominciato a telefonarmi amici che avevano bisogno di essere visitati e la voce ha cominciato a circolare. Mi sono accorto fin da subito che la situazione era drammatica, moltissimi dei cittadini erano senza medico di base perché la maggior parte era a casa o in ospedale, malati”. E la cosa che fa più male è che, anche se oggi la situazione sembra allentarsi, mancano ancora tante, tantissime risposte a questa malattia: “La triste verità è che non sappiamo praticamente quasi nulla, stiamo conoscendo la malattia giorno per giorno. Viviamo nell’incertezza, non abbiamo una conoscenza precisa e approfondita, ce la stiamo facendo, purtroppo, sul campo. E stiamo cercando una via, una cura, una soluzione. Quello con cui combattiamo è un virus molto subdolo e anche molto intelligente, che causa molti decessi perché colpisce direttamente il sistema immunitario e intacca tanti organi. Noi generalmente sentiamo parlare solo di polmoni, ma in realtà lede anche il cuore, i reni, il fegato. Va dritto alla fonte e il rischio di essere colpiti, anche e soprattutto in maniera grave, non dipende da fattori particolari, ma semplicemente da come sei tu, da quanto è forte il tuo sistema immunitario. Non importa che tu abbia 40, 70 o 95 anni, che tu sia giovane o anziano, l’età non ha particolare peso in questa malattia”. E Maffeis, alla luce della sua lunga esperienza professionale e delle sue conoscenze, fa un paragone molto particolare: “Ho fatto la tesi di laurea sull’HIV e devo dire che, studiando e guardando il Covid, lo trovo davvero molto simile. Certo, hanno una trasmissibilità completamente differente, il primo per via ematica, il secondo aerea, ma dal punto di vista dell’intelligenza e delle modalità con cui infettano il corpo umano, li trovo davvero comparabili. Credo che sarà difficile trovare una cura adeguata, anche perché abbiamo di fronte un nemico ancora tutto da scoprire, purtroppo. Ma sono anche certo che la risoluzione scientifica arriverà, magari con difficoltà, ma arriverà. E mentre dico questo, appunto, fior fiore di eccellenze nazionali e non, sono al lavoro per trovare il farmaco e la possibile cure, come tantissime realtà stanno facendo una corsa contro il tempo per creare il vaccino. Tutto il mondo si sta mobilitando, perché questo virus ha davvero fatto troppi morti”.
Monica Pagani