di Matteo Bonfanti
Il destino non è buono né cattivo. E’ come lo si guarda, la prospettiva che si sceglie. Così anche schiantarsi, procurandosi sei fratture e un viso che non somiglia per niente a quello di prima, può apparire come qualcosa di piacevole. Intanto si è in vacanza per un sacco di giorni. E poi sono tutti carini, persino i parenti: la moglie e i figli, i padri e le madri, la sorella e l’immancabile entourage che l’accompagna nelle sue innumerevoli avventure, i colleghi e gli amici. Perché di fronte all’incidentato le antiche ruggini scompaiono d’un colpo. Il pensiero comune è che il ferito poteva restarci secco, quindi, visto che è vivo e vegeto, godiamocelo, menandogli il torrone il meno possibile, anzi, per quanto si può, amandolo almeno un po’.
Sono andato a sbattere sabato 22 marzo alle tre di notte, sono passate appena due settimane e mi sento un fiorellino. Quel che è rimasto di rotto, due dita e il polso, è ingessato, non si vede e non fa male. Che sento, invece, è qualcosa di nuovo, la fiducia nello Stato, nei suoi uomini: i ragazzi della Polstrada, gli infermieri e i medici dell’ospedale.
Sono della generazione che è stata a Genova e c’è poi, importante, il fatto che non sono del tutto normale. Quindi dei poliziotti non mi sono mai totalmente fidato. Dal social forum, in sottofondo, ma presente, mi è sempre girata in testa l’idea che gli uomini in divisa non fossero dalla mia parte, ma schierati da un’altra, quella opposta: precisa, violenta e nera. A questo va aggiunto che fin da bambino ho spesso avuto addosso la paura di confessare alle forze dell’ordine un omicidio irrisolto per rompere il silenzio, per farci due parole, finendo a marcire in galera solo per la paura di non aver niente da dire. Con due pensieri del genere si può capire che con gli sbirri non ho mai legato, tenendomene alla larga persino quando facevo la cronaca nera. Insieme tante volte sul posto dello schianto: loro da una parte, pensando, forse, avessi da nascondere dell’erba, io dall’altra nell’ostinata convinzione che fossero fascisti e non valesse la pena neppure parlarci.
Che magari la stima del Duce ce l’hanno anche però per me non è più così importante. Perché in quattro minuti mi hanno messo su un’ambulanza, salvandomi la pelle perché hanno fatto quel che si doveva fare velocemente e senza esitare. Non so chi siano i due della pattuglia che hanno evitato che morissi dissanguato, non mi hanno detto i nomi e io della notte di sabato non ricordo niente. Sono andato nell’ufficio della Questura, volevo i cognomi o, quantomeno, una misera descrizione: biondi o mori, alti o bassi, magri o grassi? Nulla da fare, in compenso ho trovato un’altra coppia di celerini, sensibili e simpatici, parevano miei fratelli ed erano affiatati pure tra loro. Dicevano: “Matteo, sapessi cosa vediamo sulle strade e non è bello, c’è da stare male… Ringrazia Dio e la fortuna che sei qui a scherzare. E con quella moto promettici che smetti di andare”.
Ma non è solo la Polstrada a rendermi felice. C’è che un giorno sì e l’altro pure sono al Papa Giovanni XXIII ed è davvero un gran bel posto. Pre botto, invitato dai padroni del vapore, non c’ero mai andato. Quelle mura mi puzzavano di tangenti, di Formigoni, della Minetti, del Trota e dell’intera Lega Nord, la decantata eccellenza lombarda, finta e ladra che ci ha reso poveri e pure arrabbiati. Le tante inaugurazioni, i molteplici banchetti organizzati dal Carroccio li ho saltati a piè pari per via dell’odore di morte che mi faceva l’ospedale nuovo: i negri che si sono ammazzati per costruire quelle quattro palazzine grigie. Che c’è da festeggiare? Lo stipendio del primario che è in quota Maroni?
Eppure lì ci lavora Michele, ortopedico che ti offre il caffè e viene a trovarti a casa perché ha la tenerezza dei grandi, due bambine e la solidarietà che s’impara quando si è piccolini. E il medico maxillofacciale fa morire dal ridere, mi benda e mi dà i numeri vincenti perché un dottore bravo cura le ferite che si vedono e le altre nascoste dentro, a metà tra l’anima, l’universo e il cuore. Loro sono la struttura, sono il Papa Giovanni XXIII. Non gli sperperi sulla sanità dei membri del consiglio regionale, le trappole dei forzisti di Comunione e Liberazione, i raggiri dei lefebvriani che si radunano a Pontida.
Di famigliari e amici non parlo perché la lista dei buoni è lunga. Mi permetto solo quattro eccezioni: Costanza, mia moglie, preoccupata per via del mio ennesimo disastro, e vicina, costantemente al lavoro per pulirmi le ferite di giorno e di notte; Marco, il mio migliore amico, che al giornale si è sobbarcato anche le mie ore facendo il doppio purché riposassi; Vinicio, mio figlio grande, che è diventato un telecomando (a ogni richiesta che butto nell’aria, arriva correndo e chiedendo: “Papà, che ti serve?”); Zeno, il mio bimbo piccolo, che ha simulato di sentire tutti i miei dolori, all’occhio, al viso, al braccio, per condividerli e quindi dividerli.
Di me posso dire che sono un uomo in guarigione e assai felice. Era tanto che non stavo male male e pensavo di essere immortale. E mi sento di esserlo davvero perché ho chi mi ama.
(Vedi la gallery: la miracolosa guarigione è stata permessa dall’impegno delle persone citate nell’articolo)