di Matteo Bonfanti Qualche giorno fa Ricky e il Pazzo, due dei suoi tanti pupilli arrivati al professionismo, hanno strapazzato i marziani del Barcellona negli ottavi di Champions League. E lui,  Mino Favini, per tutti il Mago, potrebbe parlare con noi a tre metri da terra, dall’alto dei suoi mille successi. Quello che capita è invece l’esatto contrario. Il responsabile di uno dei vivai più importanti al mondo, quello dell’Atalanta, è una persona dall’estrema umiltà, che, alla nostra prima domanda quasi si scusa:  «Vi racconto quello che penso, ma la mia non è una verità assoluta perché ci sono tanti modi per insegnare a un bambino a giocare al calcio. E poi anche noi dell’Atalanta facciamo degli errori. L’importante è cercare di non ripeterli».

 

Subito il caso emblematico.  «Manolo Gabbiadini, che ora è uno dei giovani più interessanti dell’intera Serie A, ad un certo punto è stato scartato dal nostro vivaio ed è andato a giocare a Palazzolo.  Aveva avuto una forte crescita fisica, non armonica, che lo aveva messo calcisticamente in difficoltà. Il legame con noi c’era sempre, ma, secondo i nostri osservatori Manolo non aveva le caratteristiche per fare il grande salto. Dopo un paio di stagioni mi capita di incontrare un mio vecchio compagno di squadra, ora impegnato nel vivaio del Brescia, che mi parla benissimo di Gabbiadini, consigliandomi di farlo rientrare immediatamente a Zingonia. Così ho fatto ed ora Manolo è titolare in Serie A con la maglia del Bologna».
Dai professionisti a quello che erano prima: bimbi con il pallone sempre tra i piedi. Come si entra nel settore giovanile dell’Atalanta?  «Facciamo selezioni che si basano sulle attitudini. Il calcio vero e proprio arriverà in un secondo tempo. Cerchiamo il talento che è il rapporto innato che un bambino ha con la palla. Se è molto buono allora è da Atalanta. Poi ci sarà la crescita tecnica, tattica, atletica e fisica. Ma si parte comunque da lì: dalla predisposizione di un bimbo a muoversi con il pallone tra i piedi».
All’oratorio si gioca senza pressioni, se si veste la maglia dell’Atalanta è obbligatorio vincere.  «Non è vero, o meglio, non succede così per i più piccoli, la scuola calcio, i pulcini e gli esordienti. In quelle categorie per noi è importante l’apprendimento. I bambini devono imparare a far parte di un gruppo e devono capire come si gioca, la suddivisione nei vari ruoli. E il minutaggio in partita è più o meno uguale per tutti. L’impostazione cambia dai Giovanissimi, quando i nostri tesserati iniziano a confrontarsi con Milan, Inter e Juventus. Lì giocano i migliori, i più in forma, e l’obiettivo è quello di vincere le partite».
Per tanti vivai della Bergamasca il vero problema sono i genitori. Come gestite il rapporto con loro voi dell’Atalanta, che, alle volte, dovete fare anche scelte dolorose, come scartare i ragazzi? «Parlando, spiegando, convocando il papà o la mamma a Zingonia. La ricetta giusta è il buon senso, anche se non è mai facile dire a un genitore che suo figlio non fa più parte del progetto Atalanta. Padri e madri peccano di troppo amore ed è una cosa bella. A noi spetta quindi il compito di usare il massimo tatto ogni volta che dobbiamo comunicare loro qualcosa. Premesso questo, e anche rispetto a tanti altri vivai di squadre professionistiche, noi difficilmente scartiamo un ragazzo lungo il percorso. Sono pochissimi quelli che lasciamo andare perché il grosso della nostra selezione è iniziale».